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Vendita beni ecclesiastici: alienare non è sempre una sconfitta

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  • La vendita di beni ecclesiastici può rappresentare una svolta, ma solo se condotta secondo un piano strategico.
  • Crisi delle vocazioni e recessione economica: un doppio nodo difficile da sciogliere che sta provocando un progressivo svuotamento degli immobili ecclesiastici.
  • Analisi dell’utilità dell’immobile e scelta tra messa a reddito e alienazione: approfondiamo i primi passi fondamentali per dare nuova vita ai beni ecclesiastici.
  • Fissare un prezzo di vendita in linea con il mercato immobiliare è imprescindibile per scongiurare il rischio di svalutazioni e l’intromissione di soggetti terzi. Questo, però, è solo l’inizio. Il grosso dell’alienazione consiste in un cambiamento culturale.

Il potere della scelta

La crisi? È un’opportunità. Non si tratta di un luogo comune, nonostante negli ultimi tempi il suo utilizzo sia stato abusato. Lo si percepisce parlando della vendita dei beni ecclesiastici, che può rappresentare una svolta per risolvere le questioni, tante e complesse, che oggi le congregazioni religiose sono chiamate ad affrontare.

La chiave sta in quel verbo: potere. Se, infatti, la scelta di alienare un immobile ecclesiastico non è ben ponderata e affrontata in un’ottica strategica, può ridursi a una via di fuga d’emergenza che lascia dietro di sé parecchi sconfitti e occasioni mancate.

Come strutturare, quindi, al meglio la vendita di beni ecclesiastici? IMC si occupa proprio di dare risposta (la più completa ed esaustiva possibile) a questa domanda, disegnando un piano d’intervento che fa della lungimiranza e della progettualità i suoi punti di forza. Un ragionamento in prospettiva, insomma, che ha come obiettivo finale quello di valorizzare il patrimonio immobiliare della congregazione religiosa in modo da farlo fruttare secondo le modalità più consone, appropriate e utili.

L’attuale situazione delle congregazioni religiose in Occidente

Come evidenziato in un precedente articolo, oggi sono due i principali nodi cruciali per le congregazioni religiose in Occidente: la crisi delle vocazioni e la recessione economica. La combinazione di queste due dinamiche, frutto dei nostri tempi e dei profondi cambiamenti vissuti dal mondo ecclesiastico negli ultimi decenni, sta portando a un progressivo spopolamento (fino all’abbandono, in certi casi) di numerosi immobili religiosi. Ciò ha prodotto, sia in Europa sia negli Stati Uniti, una sempre più massiccia vendita di beni ecclesiastici di grandi dimensioni (da 3.000 a 12.000 mq) e la ricerca di immobili più contenuti (tra 1.800 e 2.800 mq).

L’ampiezza degli spazi, dunque, è diventata un problema, in termini economici e manutentivi, ma anche sociali. Basti pensare ai pochi religiosi rimasti, magari anziani, chiamati a dover gestire strutture immense e non più adatte alle loro esigenze. L’insostenibilità economica di molti beni ecclesiastici è l’elemento più lampante di questa situazione, ma trascina con sé molto di più.

Scenari e nuove opportunità

Lo scenario cambia parecchio se, però, dall’Europa o dagli Stati Uniti viaggiamo in altri luoghi del mondo, dove le vocazioni si mantengono costanti e la vita religiosa delle comunità procede a passo spedito. I numeri di Africa, Estremo Oriente e Sud America parlano, per esempio, di una situazione ben diversa da quella a cui siamo abituati alle nostre latitudini.

In questo panorama, l’Italia rimane una meta fondamentale per la formazione religiosa internazionale. Il Vaticano e le università teologiche con sede a Roma (come, ad esempio, la Gregoriana, l’Urbaniana o la Lateranense) continuano a essere importanti poli attrattivi per le nuove vocazioni. Ciò è incentivato anche dal fatto che, nel nostro Paese, non vi sono grosse difficoltà per l’ottenimento dei visti d’ingresso come, invece, accade in moltissimi altri Stati. Ecco, dunque, che la circolazione di religiosi in formazione rappresenta un ulteriore spazio su cui innestare una riflessione sull’utilità e il futuro degli immobili ecclesiastici in Italia. Ma in che modo? E in quale direzione?

Vendita di beni ecclesiastici: sì o no?

Quando s’innesca una riflessione attorno all’ipotesi di vendita di beni ecclesiastici, i primi passi fondamentali da compiere sono due:

  • analizzare l’effettiva utilità dell’immobile;
  • optare per la messa a reddito o l’alienazione, qualora si valuti che la struttura non risponde più alle necessità e alle possibilità di chi ci vive.

Se la scelta ricade sull’alienazione, ha diritto di prelazione nell’acquisto l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (APSA). Una prelazione morale va, invece, ad altre congregazioni religiose o enti senza scopo di lucro che operano nel sociale e che abbiano necessità di spazi per lo svolgimento delle proprie attività.

È qui che mette radici tutta la potenzialità dell’alienazione. Convertendo un bene ecclesiastico in qualcosa di nuovo e prezioso per la società, ci si sgrava di un peso ormai insostenibile ottenendo, al contempo, un guadagno da reinvestire in progetti in linea con le finalità e il carisma della congregazione. Ecco la svolta di cui si parlava all’inizio.

I rischi della vendita e l’alienazione come cambiamento culturale

Il rischio principale in cui si potrebbe incappare in fase di vendita di beni ecclesiastici è che soggetti terzi intercettino la vendita. Tuttavia, ciò è possibile solo se il prezzo della compravendita non coincide con il reale valore di mercato dell’immobile in questione. Pertanto, il prezzo di vendita va stimato professionalmente, secondo standard internazionali e non in emergenza, per evitare di scivolare in una svendita. A tal proposito, meritano una menzione gli standard imposti dal Red Book RICS, gli IVS – International Valuation Standards e gli IPMS ovvero gli International Property Measurement Standards.

Un altro aspetto rilevante da affrontare, quando si prospetta l’alienazione di un bene religioso, è spesso rappresentato dalle resistenze, di carattere emotivo e sentimentale, che i membri di una congregazione possono manifestare. Si tratta di resistenze comprensibili. Del resto, alienare rappresenta un cambiamento radicale, soprattutto per chi è sempre stato abituato a vivere nel medesimo convento. Possiamo dire che, in questo senso, l’alienazione coincide anche con un cambiamento di carattere culturale. Un ribaltamento di prospettiva che è necessario trasmettere ai soggetti coinvolti facendo comprendere, in primo luogo, che avere un patrimonio immobiliare da milioni di euro non ha alcun senso, se poi chi ci vive non ha i soldi per fare la spesa o sostentarsi.

Il valore dell’esperienza

In conclusione, possiamo affermare che l’alienazione di un immobile di un ente ecclesiastico non è sempre una sconfitta. A patto che sia fatta al prezzo corretto, avendo la visione complessiva del patrimonio immobiliare della congregazione, programmandola e, possibilmente, prediligendo un acquirente religioso a uno laico. È una sconfitta solo se fatta in emergenza e a causa di una cattiva strategia complessiva. Se poi la vendita al mondo laico fosse l’unica alternativa, andranno preferiti acquirenti che, verosimilmente, destineranno l’immobile ad attività socialmente utili come ad esempio socio-sanitario ed educativo.

L’alienazione di un bene ecclesiastico è un lavoro che unisce competenze tecniche e trasversali. Bisogna conoscere a fondo il settore, saper sviluppare un modello previsionale efficace e realistico, prendere in considerazione tutte le variabili. Servono, tuttavia, anche sensibilità, delicatezza e capacità di conciliazione tra visioni differenti. E, a sostenere il tutto, ci dev’essere sempre un’ottica pragmatica volta alla tutela della congregazione religiosa e alla riqualificazione di un immobile carico di storia, spiritualità e valori. Tutti elementi che non andranno perduti solo se ci sarà un vero, e ben congegnato, passaggio di testimone.

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